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Sguardi sull’Arte – “Angelo in divenire” | PAUL KLEE

PAUL KLEE. Il colore degli angeli

L’arte non rappresenta il visibile, ma rende visibile ciò che non lo è.

Artista prolifico e instancabilmente ispirato, Paul Klee (Münchenbuchsee, 18 dicembre 1879 – Muralto, 29 giugno 1940) è l’emblema della rivoluzione formale e concettuale del suo tempo. Le sue opere ibride, sempre armoniche nella loro simbolica contaminazione – stilistica e culturale – rimangono attuali oggi come ieri, libere da barriere e confini sociali e spaziotemporali.

Affermatosi come pittore in seguito a una precoce formazione da violinista, fu membro del Der Blaue Reiter (1) e docente di pittura al Bauhaus (2) fra il 1920 e il 1930, dove si distinse per il suo approccio trasversale che univa parallelamente gli aspetti scientifici e poetici della pittura.

La sua ricerca artistica si caratterizza per la molteplicità delle tecniche e dei materiali impiegati, sapientemente coniugati al pari di una polifonia. Tutto in Klee è musicalmente ritmico: forme quasi astratte e colori intensi, spesso accostati in maniera contrastante, si fanno pura atmosfera onirica, sospesa fra nostalgia e meraviglia, fra realismo e astrazione. L’astrattismo è, in questo caso, una modalità di rappresentazione attraverso cui la realtà non è riprodotta tradizionalmente, ma viene restituita attraverso un ragionamento, un processo di analisi simbolica ed evocativa della forma, per comprenderne le origini.

Questo equilibrio fra forma – colore – simbolismo è determinante sia nelle scelte stilistiche, che in quelle dei soggetti, volutamente immersi nel dualismo carnale – spirituale della condizione umana.

Soggetti cari all’artista sono infatti gli angeli, ai quali dedicò circa una cinquantina di opere, realizzate fra il 1913 e il 1940. L’angelo di Klee non è però un angelo religioso: non è immortale, né bello, né divino. Non vola – ha un corpo, mutevole e imperfetto come un essere umano, e come esso è in cammino, in stato di perenne formazione e trasformazione.

Paul Klee, Angelo in divenire, 1934. Olio su tela preparata su compensato, collezione privata, in deposito presso il Zentrum Paul Klee, Berna

“Angelo in divenire” (1934) è una fra le rappresentazioni più emblematiche degli angeli di Klee.

Linee semplici e segni essenziali convergono in un’unica massa informe, priva di sembianze umane, animali e tantomeno divine. Gli unici elementi codificabili sono un cerchio, una croce e un triangolo: forme archetipiche, geometricamente simboliche, le quali inscrivono la composizione in una dimensione ancestralmente universale.

Questo angelo è lo specchio dell’uomo, o più precisamente il riflesso di ciò che è portato a nascondere. L’angelo è il bambino, nel significato come nelle fattezze: quel principio di forma che si fa e si disfa, che nel gioco trasforma e si trasforma, poiché tutto, lui compreso, può essere ovunque e in ogni momento.

Noi tutti, angeli in terra, non possiamo fare altro che tendere, costantemente cambiare, camminare, auspicando ad essere altro ed oltre da sé, al di là di qualunque dimensione e specificazione.

(1) Der Blaue Reiter (letteralmente “il cavaliere azzurro” o “il cavaliere blu”) fu un gruppo di artisti formatosi a Monaco di Baviera nel 1911 e attivo fino al 1914, il quale contribuì alla creazione di una nuova corrente espressionista, che sarà definita “espressionismo lirico” per distinguerlo da quello, a carattere più sociale, della Die Brücke, fondato a Dresda nel 1905.

(2) Il Bauhaus è stato un istituto superiore di istruzione artistica fondato nel 1919 a Weimar in Germania, nel contesto storico-culturale della Repubblica di Weimar (1919-1933), per promuovere un nuovo metodo educativo in grado di integrare arte e artigianato industriale e l’unità delle diverse attività artistiche al servizio del concetto di “opera d’arte totale”.

Articolo a cura di Maria Chiara Pernici

La rubrica SGUARDI SULL’ARTE nasce come spazio di contemplazione, come ripristino del silenzio e del tempo propri dell’Arte. Incontrare un’opera implica una pausa, una frattura: apre una finestra, un varco – un vortice relazionale intimo e condiviso.

Sguardi sull’Arte – Trittico Blu | JOAN MIRO’

JOAN MIRO’. Blu al cubo

Il quadro deve essere fecondo. Deve far nascere un mondo.

Artista multidisciplinare e instancabile sognatore, Joan Mirò è una delle personalità di maggior spicco del Novecento. La sua ricerca, contemporanea al flusso rivoluzionario delle Avanguardie artistiche, si avvale di un’inesauribile e proficua sperimentazione, che trascinerà la sua intera esistenza alla scoperta di un linguaggio universale.

Influenzato dalla sintesi formale cubista e dall’automatismo psichico del Surrealismo, Mirò si distingue sia per la ribellione nei confronti dei tecnicismi, sia per lo sguardo immaginifico con cui contempla il mondo, unito a un particolare trasporto nei confronti della sua terra d’origine. Di grande ispirazione per l’artista furono infatti le pitture rupestri della grotta di Altamira e le opere cattoliche catalane, le quali plasmarono il suo inequivocabile spiritualismo, in sintonia con un’esistenza profondamente ispirata e una sensibilità chiaramente poetica.

Joan Mirò, Blu I, 1961. Olio su tela, 355 x 270 cm
Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Il Trittico Blu è un’opera della maturità dell’artista e che probabilmente meglio sintetizza la sua intera carriera. Nonostante si sia sempre mosso ai margini estremi del figurativo, le tre grandi tele (355 x 270cm), dipinte in un solo giorno, il 4 marzo 1961, giungono ad un livello di astrazione senza precedenti. Colore, punti e linee si orchestrano sinergicamente, rendendo ogni elemento necessario all’equilibrio della composizione.

Joan Mirò, Blu II, 1961. Olio su tela, 355 x 270 cm
Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Tutto d’un fiato dunque l’enorme superficie si colora di BLU, di un blu-azzurro brillante e gravemente intenso, a traduzione della sua più sincera interiorità psichica. Libero da elementi riconoscibili, l’ampia distesa monocromatica è solcata solo da linee e punti rossi e neri: presenze essenziali, germinali, simili a cellule immerse in un brodo primordiale – in una dimensione a-spaziale e a-temporale che testimonia un viaggio a ritroso fino all’origine del tutto, alla nascita della vita stessa.

Joan Mirò, Blu III, 1961. Olio su tela, 355 x 270 cm
Parigi, Musée National d’Art Moderne, Centre Pompidou

Quella di Mirò è una narrazione fatta di segni più che di immagini, composta da un alfabeto misterioso e universale che comunica con la voce più intima di ognuno di noi, quella dell’io-libero, bambino, che vede, sente, comprende con gli occhi sinceri dell’immaginazione.

Articolo a cura di Maria Chiara Pernici

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Sguardi sull’Arte – “Mercato a Minho” | SONIA DELAUNAY

SONIA DELAUNAY. “Il colore è la pelle del mondo”

Donna dal timbro caleidoscopico, Sonia Delaunay contribuì alla rivoluzione artistica del primo Novecento, integrando l’artigianato alle arti considerate “maggiori”, e favorendone una proficua, reciproca contaminazione. Grazie al suo contributo, l’arte del XX secolo scavalca i confini della vita quotidiana mettendosi in relazione con essa: entra nelle case, si fa abito, accessorio. Ridisegna la società e in modo particolare la concezione di donna moderna.  

Mentre la modernità si instaura frenetica e una sempre più forte incertezza si diffonde, Sonia e il marito Robert Delaunay fondano a Parigi l’Orfismo, un movimento artistico rivoluzionario, così chiamato dal poeta Guillame Apollinaire per enfatizzare il carattere musicale e trascendentale delle opere dipinte.

Ispirati dagli studi sulla rifrazione della luce, in un clima in cui arte e scienza si trovano spesso inseparabili compagne, i coniugi Dalunay riattualizzano i principi pittorici del post-impressionismo (1), applicando la legge dei contrasti simultanei (2) alle forme geometriche e ricercando assiduamente, attraverso l’espressione lirica del colore, la fluidità e il dinamismo dell’astrazione.

Ossessionata dal colore e ancor più dal suo movimento, la Delaunay applica ai principi dell’astrazione pittorica le regole delle composizioni al telaio e viceversa, perseguendo l’idea di un’unità delle informazioni cromatiche, in termini sia ottici che materiali.

Sonia Delaunay, Mercato a Minho, 1915, olio e cera su tela, 127.5 x 92.5 cm

“Mercato a Minho” (1915) è un dipinto realizzato dall’artista durante il suo soggiorno spagnolo. Lo spazio luminoso, caldo e colorato avvolge lo spettatore, che si trova avvolto nell’atmosfera vitale del mercato domenicale. La forma più chiaramente definita è il toro, sulla destra; nel centro e sulla sinistra è possibile scorgere, pur non essendo irrevocabili, diverse figure umane. Vestiti colorati, voci rumorose, odori deliziosi emergono dal tripudio cromatico della composizione. I colori infatti sono accostati simultaneamente: rosso e blu, arancione e verde, giallo e viola si esaltano reciprocamente, tanto da percepirne le vibrazioni sonore. La manipolazione cubista della forma incontra così la musicalità del colore, che vibrante diffonde il “rumore” in un’audace polifonia che pare di udire con lo sguardo.

(1) Il post-impressionismo è una fase storico-artistica molto articolata che comprende gli orientamenti artistici che si svilupparono in Francia nell’ultimo ventennio dell’Ottocento. Comprende una vasta gamma di stili artistici distinti che condividono la motivazione comune di superare i concetti dell’Impressionismo. Le variazioni stilistiche riunite sotto l’ombrello del postimpressionismo vanno dallo scientifico neoimpressionismo di Georges Seurat al rigoglioso simbolismo di Paul Gauguin.

(2) Il contrasto simultaneo è il fenomeno ottico che si verifica tra colori vicini che si influenzano a vicenda, cambiando la nostra percezione di quei colori (più o meno saturi, più o meno luminosi). Può essere notato sia con colori che con luminosità differenti.

Articolo a cura di Maria Chiara Pernici

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Sguardi sull’Arte – “The Kitchen Garden on the Eyot” | LEONORA CARRINGTON

LEONORA CARRINGTON. Elegia alla Creazione

L’uovo è il macrocosmo e il microcosmo, la linea di frontiera fra grande e piccolo, che rende impossibile la visione del tutto. (1)

Donna dalla personalità lirica e indomabile, Leonora Carrington fu surrealista per natura e per necessità interiore, senza mai però sposare di fatto le intenzioni del Surrealismo (2). Stimolata certamente dal clima orchestrato da Breton e dai colleghi surrealisti, la Carrington, così come le altre artiste affini al movimento, si distinsero per una ricerca pittorica autonoma, volta alla ri-generazione di un linguaggio femminile, universale, rivelatore dell’indicibile.

L’universo pittorico della Carrington è popolato da animali e creature oniriche, talvolta mostruose, protagonisti della sua infanzia. Fu infatti la nonna, di origine irlandese, a iniziarla alla mitologia celtica, risorsa che verrà contaminata e arricchita successivamente dalle ricerche in campo esoterico, alchemico, sacro. La reminiscenza mitologica convive con la dimensione più autobiografica dell’artista dando vita a spiazzanti visioni, nelle quali è possibile veder affiorare un certo archetipo femminile: la Creazione, al contempo biologica e artistica, è infatti concepita nella sua qualità generativa e metamorfica, per essere così restituita alla sua intrinseca attività, chiaramente espressa in natura.

Leonora Carrington, The Kitchen Garden on the Eyot, 1946. Tempera su tavola, 30×50 cm.
Estate of Leonora Carrington/Artists Rights Society (ARS), New York

“In the Kitchen Garden on the Eyot” (1946) è uno degli esempi più totali e totalizzanti dell’esperienza della pittrice. Realizzato durante la sua permanenza a Città del Messico, e influenzata certamente dalle tradizioni locali, l’opera si afferma in tutta la sua maestosità tecnica, espressiva e di contenuto.

La scena si presenta come un “sogno ad occhi aperti”: tra i frutti e gli ortaggi di un orto rigoglioso, un fantasma bianco spunta da un albero, mentre sulla sinistra una figura cornuta vestita di rosso interagisce con altri spiriti. È però il giardino cintato sullo sfondo a dare il nome al dipinto, un giardino che non è soltanto un complemento di stato in luogo, ma uno spazio pieno di rivelazioni simboliche, perché metafora della Creazione. Il giardino si presenta infatti in forma ovoidale, forma che riecheggia nelle figure rotonde delle galline e nel cancello sulla destra. Un uccello luminoso depone le uova a mezz’aria accanto alle tre figure, così come la candida creatura sull’albero ne tiene una in mano.

È dunque l’uovo la chiave di lettura dell’intera rappresentazione, l’uovo come “vaso di creazione” sul piano simbolico, pratico e autobiografico. Leonora, che da lì a poche settimane darà alla luce il figlio, ci svela l’uovo nella sua metafisica essenza, ponendolo sia come simbolo, sia come soggetto compositivo, ma anche come elemento attivo, come materia impiegata concretamente nella creazione dell’opera. Erede della tradizione pittorica italiana quattrocentesca, l’artista riattualizza la tempera all’uovo, la quale conferisce alle tinte l’iridescenza necessaria all’etereità della visione.

(1) L. Carrington, Giù in fondo, 1945

(2) Il Surrealismo è un movimento artistico e letterario d’avanguardia del Novecento, nato negli anni ’20 a Parigi come evoluzione del dadaismo e che coinvolse tutte le arti, dalla letteratura, alla pittura, al cinema; il primo manifesto fu scritto da André Breton nel 1924, e di fatto il movimento si protrarrà fino agli anni Cinquanta.

Articolo a cura di Maria Chiara Pernici

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Sguardi sull’Arte – “Foresta imbalsamata” | MAX ERNST

MAX ERNST. Le regole del Caso

Giunsi al risultato di assistere come spettatore alla nascita di tutte le mie opere.

Surrealista di nome e di fatto, Max Ernst è stato fra i principali fautori, e teorici, di un’arte rivoluzionaria ancora oggi, la quale influenzò irreversibilmente la storia dell’arte negli anni a venire.
La poetica del Surrealismo (1) si pone di fatto in antitesi ai meccanismi sociali predefiniti, proponendo una visione incontaminata dal cosciente stato di veglia, il quale rinnega forzatamente l’immaginazione come naturale e indispensabile funzione vitale.

Ernst, attraverso un’assidua e prolifera sperimentazione, tocca quelli che sono i fondamenti della “Rivoluzione Surrealista”(2), incarnando l’automatismo psichico più puro, dettato dal pensiero in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di qualsiasi preoccupazione estetica e morale.(3)
È in questa cornice di pensiero che nel 1925 l’artista si avvicina a una tecnica grafico-pittorica, in realtà di antica provenienza, conosciuta come frottage: traducibile in italiano come “sfregamento”, il procedimento consiste letteralmente nello strofinamento di un carboncino o di una matita su un foglio, utile a rilevare le forme imprigionate nelle superfici, quali assi di legno, muri screpolati, cortecce, foglie, ritagli di carte, tessuti, ecc…
Sulla scia della “preparazione casuale” concepita già da Leonardo Da Vinci secoli prima, che avvalora il ruolo formale e dunque evocativo della “macchia”, Ernst rilegge l’informe traducendolo in forma, restituendolo quindi alla sua natura sognante di possibile affermazione di (sur)realtà.

Max Ernst, Foresta imbalsamata, 1933. Olio su tela, 162 x 254 cm

Nascono così le “Foreste”, realizzate fra gli anni venti e trenta del Novecento: opere oniriche dalle fattezze impenetrabili, che raccontano di paesaggi interiori di fatto notturni, rischiarati da un grande disco lunare.
Il frottage è qui affiancato dal grattage, tecnica di analoghi principi, ottenuta “raschiando” il colore precedentemente steso, lasciando così emergere sul piano del dipinto i motivi in rilievo della superficie sottostante al supporto.
Libera in questo caso dall’automatismo della mano, l’immagine affiora solida e impertinente, meravigliando l’uomo che altro non può fare se non accogliere e assecondare il suggerimento contenuto nella materia, raggiungendo sinergicamente con essa il suo completamento, costruito sull’intima e sincera cooperazione fra interno ed esterno, fra voce e silenzio, fra sogno e volontà.

Non ti sia grave il fermarti alcuna volta a vedere nelle macchie de’ muri, o nella cenere del fuoco, o nuvoli o fanghi, od altri simili luoghi, ne’ quali, se ben saranno da te considerati, tu troverai invenzioni mirabilissime, che destano l’ingegno del pittore a nuove invenzioni. (Leonardo Da Vinci)

(1) Il Surrealismo è un movimento artistico e letterario d’avanguardia del Novecento, nato negli anni ’20 a Parigi come evoluzione del Dadaismo e che coinvolse tutte le arti, dalla letteratura, alla pittura, al cinema; il primo manifesto fu scritto da André Breton nel 1924.

(2) Dal nome della rivista fondata da André Breton, Louis Aragon, Pierre Naville e Benjamin Péret. Per cinque anni “La révolution surréaliste” fu il punto d’incontro in cui si svilupparono i grandi temi del surrealismo, proponendo testi, racconti e riproduzioni di opere d’arte. La rivista era provocatoria e rivoluzionaria. L’ultimo numero è pubblicato nel dicembre del 1929 e contiene il Secondo Manifesto del surrealismo di Breton.

(3) A. Breton, Primo manifesto del surrealismo, 1924

Articolo a cura di Maria Chiara Pernici

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Sguardi sull’Arte – “L’albero rosso” | MARIANNE WEREFKIN

MARIANNE WEREFKIN. Il colore fra emozione ed espressione

Sono tormentata nel cuore da un desiderio straziante di manipolare il colore… vedo figure, con un’intensità incredibile, passare davanti ai miei occhi.

Definita da Kandinsky la “levatrice del Cavaliere Azzurro”, Marianne Werefkin è fra gli esempi più significativi del Blaue Reiter (1), distintasi dagli altri membri del gruppo per non aver mai abbandonato completamente la figurazione. Ciò nonostante, nelle opere dell’artista, il visibile non è mai come appare; sfonda invece le barriere dello sguardo, calandosi in una dimensione, per certi versi “astratta”, di onirica saggezza.

Per quanto lontana dalla rappresentazione naturalistica e impressionistica della realtà, è proprio nella “rappresentazione di paesaggio” che Marianne esprime vigorosamente la sua visione, fatta di pennellate ora lunghe, ora brevi, vibranti di colore.

Come emerge dai suoi scritti, pubblicati da Gabrielle Dufour-Kowalska nel 1999 con il titolo “Lettres à un iconu” (2), è infatti il colore, sostenuto da un’emotività intensa, a dichiarare la sua supremazia sulla forma.

Marianne Werefkin, L’albero rosso, 1910. Tempera su cartone, Fondaziane Marianne Werefkin, Ascona, Svizzera

Di colori puri e in armonico contrasto vive “L’albero rosso” (1910), apparentemente immerso nell’atmosfera cheta di un paesaggio alpino, ma più propriamente sospeso in una dimensione sognante di intima contemplazione.

Dichiaratamente ispirata all’iconografia popolare, quella della Werefkin è una pittura primitiva, mistica, pregna di simbolismi arcaici e di bisogni ancestrali.

L’albero e la montagna, ricorrenti negli schizzi e nelle opere della pittrice, sono entrambi emblemi dell’interconnessione fra la terra e il cielo e dell’elevazione spirituale. Qui dominano insieme la composizione, accentuando il verticalismo, e quindi lo slancio verso l’alto – verso l’oltre.

Piccola, sul bordo della tela, una figura scura compie l’attesa, e nella sua mancata individualità ognuno di noi è esortato a riconoscersi.

Marianne Werefkin, Fuochi fatui, 1919

(1) Der Blaue Reiter (letteralmente “il cavaliere azzurro” o “il cavaliere blu”) fu un gruppo di artisti formatosi a Monaco di Baviera nel 1911 e attivo fino al 1914, il quale contribuì alla creazione di una nuova corrente espressionista, che sarà definita “espressionismo lirico” per distinguerlo da quello, a carattere più sociale, della  Die Brücke, fondato a Dresda nel 1905.

(2) Composta tra il 1901 e il 1905, l’immaginaria corrispondenza di Marianne Werefkin con l'”Ignoto”, simbolo del suo ideale artistico, prelude alla serie di dipinti decisamente moderni che l’artista, dopo un silenzio di dieci anni, produsse a partire dal 1907 come contributo particolarmente originale al movimento espressionista europeo.

Articolo a cura di Maria Chiara Pernici

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Sguardi sull’Arte – “Albero rosso” | PIET MONDRIAN

PIET MONDRIAN. Dall’albero all’universo

Voglio arrivare il più vicino possibile alla verità e astrarre ogni cosa da essa, fino a raggiungere l’essenza delle cose.

Immaginarsi Piet Mondrian come pittore figurativo potrebbe apparire improbabile, ma è invece proprio ricostruendo la sua ricerca artistica dalle origini che è possibile dimostrarlo.
Conosciuto per le sue opere geometricamente essenziali, l’astrattismo radicale di Mondrian nasce dalla natura e più nello specifico dagli alberi.

Piet Mondrian, Albero rosso, 1908-1910. Kunstemuseum Den Haag, L’Aia, Paesi Bassi


Fra il 1908 e il 1912 l’artista dipinse una lunga serie di alberi, studiandone le forme caotiche e complesse dei rami. Partendo da uno stile per certi versi “impressionista”, seppur prediligendo l’accostamento di pochi colori, la rappresentazione diventa via via più allusiva, riducendo al minimo le informazioni riportate sulla tela: così come i colori, passando per il grigio, si dirigono verso la trasposizione dell’essenziale, linee verticali e orizzontali codificano, semplificano quella che risulta essere la struttura muta, intrinseca della natura; l’ordine nascosto, la legge silenziosa che sostiene e governa l’intero cosmo.
In un articolo pubblicato sulla rivista De Stijl (1) (febbraio 1919) l’artista spiega che la sua conversione all’astrazione era avvenuta progressivamente, sul filo della pratica pittorica, e che la teorizzazione era intervenuta solo in seguito. Il processo creativo, come dimostrato dallo stesso Mondrian, diventa quindi strumento di conoscenza, un mezzo per studiare la cornice del reale in cui siamo immersi.
Denys Riout sostiene che l’astrazione nasca da una sublimazione dell’arte figurativa, e in particolare dalla sincera e sublime decantazione della natura, tanto da spingerne la rappresentazione alla composizione pura. (2)
L’opera di Mondrian è pertanto una dichiarata ricerca del vero, e non sul vero: un’analisi della sua struttura coniata nei termini di quell’equilibrio e di quell’armonia universale che si cela allo sguardo ma che concede il visibile.
Piet Mondrian, in qualche modo, dà forma a quello che Arthur Shopenhauer scrisse in anni precedenti: riassume graficamente le forze della volontà alla radice della rappresentazione. (3)

(1) De Stijl (che in olandese significa “Lo stile”) è una rivista fondata nel 1917 a Leida (Paesi Bassi) da Theo Van Doesburg e Piet Mondrian. Per estensione, il nome De Stijl indica il gruppo di artisti e architetti che, raccolti intorno alla rivista, diedero vita al movimento del neoplasticismo.

(2) D. RIOUT, L’arte del ventesimo secolo. Protagonisti, temi, correnti, 2002 Einaudi editore s.p.a., p. 24

(3) A. SHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, prima edizione 1819

Articolo a cura di Maria Chiara Pernici

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Pensiero del giorno – ”Ti chiedo… scusa”

Esiste una parola
breve, corta corta
però mi sono accorta
che è grande come il mare…
Difficile sentirla
richiede gran coraggio
ma grande è il vantaggio
se tu la sai usare.
Son solo poche lettere
5 sì ! Soltanto
e come per incanto
tutto si risolverà…
I grandi non lo sanno
quanto poi sia importante
e basta solo un istante
per dirla, ma non si fa…
(Simona Vezzuto)

Voce e video: Irma Borno alias ”Il Cappello di Irma”

E’ Natale! – FILASTROCCA DI NATALE

Filastrocca di Natale
ogni anno puntuale
ti presenti all’uditorio
col tuo noto repertorio
che ci parla di allegria
di bontà e di armonia.

Ma il Natale, tu lo sai,
per qualcuno non vien mai.
Dove c’è disperazione,
sotto i colpi del cannone,
dove è fame e sofferenza
della festa si fa senza.

Filastrocca di Natale
per non essere sempre uguale
questa volta resta al fianco
di chi è solo, triste e stanco,
di chi ha perso, a lungo andare,
anche i sogni da sognare.

Filastrocca, credi tu
che dispiaccia al buon Gesù?
Lui che è nato poverello
là tra il bue e l’asinello
più di tutto apprezzerà
la tua buona volontà.
(Anna Lavatelli)

Musica: Noel di Audionautix è un brano concesso in uso tramite licenza Creative Commons Attribution 4.0. https://creativecommons.org/licenses/by/4.0/
Artista: http://audionautix.com/

Voce e video: Irma Borno alias ”Il Cappello di Irma”

Pensiero del giorno – … di Daisaku Ikeda

Non importa quali possano essere le nostre circostanze personali;
se noi stessi diventiamo fonte di luce,
allora non ci saranno tenebre nel mondo.
(Daisaku Ikeda)

Voce e video: Irma Borno alias ”Il Cappello di Irma”

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